di Luca Dionisi
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In occasione del terzo incontro di FUTURISERS dedicato al tema delle Complexities vi propongo di tuffarci nella complessità per esaminare meglio il come, il quanto e il perché ci si distanzi dal concetto di linearità, andando poi ad approfondire come tale dicotomia caratterizzi il mondo della Scuola.
Linearità vuol dire muoversi in uno spazio (n) dimensionale, che sia esso bidimensionale, tridimensionale o pluridimensionale.
Immaginiamo la linearità come fosse un punto che muovendosi lascia una traccia a terra – che poi è una delle modalità con cui viene presentato a Scuola il concetto di linea: date poche formule possiamo avere qualsiasi aspettativa sulla posizione e la velocità del punto nello spazio, possiamo ipotizzare rapporti di causa/effetto arrivando persino a interrogarci sulla natura stessa del punto. Ed è così anche per quanto riguarda la linearità con cui si presentava a noi la vita secondo l’ottica delle generazioni del passato: una vita a tappe, una fermata dopo l’altra, in diretta consequenzialità. Ci si salvava da queste dinamiche fino alla scelta degli studi superiori, dopo di che la nostra vita era già scritta: 18/19 anni esci da scuola, scegli un’università, ti laurei (in tempo, preferibilmente), trovi un lavoro, ti sposi, figli, nipoti, morte.
Nell’ottica della linearità procediamo spesso per semplificazione, per applicazione di filtri, per oggettivazione della soggettività. Secondo quest’ottica è giustificato, come già detto, il rapporto causa/effetto a cui segue spesso generalizzazione; e alla generalizzazione è spesso legato il concetto di normalizzazione, il riferirsi dunque a una norma, a un sistema che contempla “l’avvicinarsi a” ma non il “quanto è distante da”.
La linearità è dunque solo apparente e in realtà il sistema in cui siamo inseriti è molto più complesso: basti pensare che in tempi antichi, ad esempio, i sistemi di misurazione nascono per semplificare concetti più astratti – la geometria nasce per suddividere i terreni agricoli (e la denominazione ne è un rimando), il numero zero nasce in India proprio per indicare l’incommensurabilità. Pensate che il sistema decimale non è l’unico sistema numerico esistente, ma in antichità venivano utilizzati anche sistemi base 36 o base 60, molto più funzionali per la contemplazione dell’universo rispetto al sistema base 10. La complessità dunque: non siamo in grado non solo di capire il movimento nello spazio ma nemmeno il che cosa sia in movimento; non possiamo avere aspettative sul movimento di qualcosa che non conosciamo a fondo, anche perché non siamo in grado di conoscere le dimensioni in cui ci muoviamo; non possiamo più aspettarci il rapporto causa/effetto ma dobbiamo arrenderci al rapporto di concausalità. E se andassimo per semplificazione rischieremmo di perdere il focus, come applicare eccessivi filtri per sostenere un’oggettivazione di quanto invece è soggettivo.
Abito nella casa che fu dei miei nonni e quando mi sono trasferito ho trovato alcuni loro oggetti, che ho gelosamente custodito in un cassetto. Il telefono che veniva usato solamente per telefonare, gli occhiali che venivano usati solamente per vedere, l’agendina che veniva utilizzata solamente per scrivere numeri telefonici o appuntamenti: strumenti perfettamente lineari per un uso espressamente lineare, immediato.
Mettiamo gli strumenti del passato in confronto con gli strumenti del presente (e futuri). I glass che non servono per vedere ma per immaginare, la tavoletta grafica che tra le altre cose permette anche di scrivere (ma riportando il testo o le immagini su un altro piano), lo smartphone che ci permette di chiamare, di messaggiare, di chattare, di essere social, di fare fotografie e inviarle a destinatari dall’altra parte del mondo.
Reale e virtuale si stanno ricombinando tra loro e il periodo, oltre che essere di transizione, è di estrema confusione. Entriamo a scuola, ambiente in cui non c’è più spazio per comprendere la linearità: pensiamo alla tematica della gestione della classe, uno dei temi che più impensierisce gli insegnanti. Come possiamo ancora procedere per linearità? Come possiamo pensare che ci sia una ricettina da seguire passo passo per la miglior conduzione possibile della propria didattica? E soprattutto: come possiamo ancora considerare il banco metafora del confine e non piuttosto della frontiera?
Pensiamo (insieme) ai primi chiari esempi che ci vengono in mente se pensiamo alla linearità a Scuola: la struttura classica dell’aula, con la lavagna più alta dei banchi, simbolo di potere assoluto; alunni separati a coppie, che variano durante l’anno solamente per garantire una migliore gestione della classe (?); la lezione ex cathedra, la didattica tradizionale, i sussidiari, le schede, le fotocopie o le stampe dai blog degli insegnanti, date agli alunni così, senza senso o perché così si fa.
E se pensiamo (nuovamente insieme) alla complessità per contrasto ci sembrerà logico evidenziare le nuove tecnologie, le isole dell’apprendimento, le mappe concettuali.
Ma siamo realmente sicuri che linearità e complessità si risolvano in questo?
Se così fosse basterebbe molto poco per invertire il cambio di rotta: porto la classe in biblioteca per usare la LIM, cambio la disposizione della classe, utilizzo strumenti che sicuramente funzionano, incrocio le dita e spero con tutto il cuore che finalmente la mia scuola sia in grado di comprare qualche barattolo di tempera in più.
Naturalmente non è così. E l’organizzazione della classe, l’utilizzo di nuovi strumenti e materiali (analogici e digitali) o l’assunzione di metodi ‘che funzionano’ non risolvono le difficoltà legate alla complessità a meno che non siano supportate da precise scelte metodologiche.
La professionalità docente è direttamente proporzionale alla sua funzionalità comunicativa e alla sua potenza educativa. L’insegnante deve pienamente comprendere il paradigma della complessità in educazione, che tradotto vuol dire: orientiamo le nostre scelte metodologiche all’interno della tematica riguardante la gestione della classe e aiutiamo i nostri alunni a raggiungere i propri traguardi di competenza con efficienza.
Per concludere e per chiarire quali siano le competenze di cui parlo ci presento il costrutto delle otto Competenze Chiave Europee per la cittadinanza, del 2006: comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue straniere, competenza matematica e competenze di base in scienze e tecnologia, competenza digitale, imparare ad imparare, competenza sociale e civica, spirito d’iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturale.
Mi interessa soffermarmi rapidamente su due aspetti: a) l’esigenza di ripensare l’apprendimento nell’idea del lifelong learning, e quindi essere forniti di un insieme quanti/qualitativo di competenze che ci rendano in grado di affrontare situazioni nuove in ambienti nuovi; b) il lifelong learning come requisito base per esercitare la propria realizzazione personale in funzione della cittadinanza attiva. Le competenze chiave permettono di ragionare e comunicare in modo efficiente nel momento in cui interpretano i problemi nei
diversi ambiti e sono competenze di cui tutti gli individui hanno bisogno per la realizzazione, lo sviluppo personale, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione nell’era della complessità.